Capitolo 6 – Sopra noi il cielo è sereno
“Qual è il colmo per un oculista?”, domando sogghignando.
“Hai intenzione di continuare ancora a lungo con quel libro demenziale?”, mi risponde Daryl, guardandomi con gli occhi socchiusi e un antitetico sorriso dipinto sulla bocca.
Arriccio le labbra per trattenere una risata e, girando la pagina del testo, esclamo “Innamorarsi ciecamente!”.
Detto ciò, chiudo il libro ponendo l’indice nel punto in cui sono arrivata a leggere e, voltando il capo verso Daryl che cammina alla mia sinistra, proferisco “Quanto è brutta? Davvero c’è gente che trova divertenti queste barzellette?”.
“Appunto, possiamo darci un taglio?” e, prima ancora di concludere la frase, con la mano destra cerca di afferrare il manuale. Io, però, schivo la sua presa e, ridendo, apro nuovamente il volume, leggendo, “Qual è il colmo per un cacciatore?”.
Con il palmo sinistro tocco il petto di Daryl, esortandolo ad arrestare il suo passo. Infatti, come udita la mia tacita richiesta, una volta fermo, inspiro e, con un suono gutturale, insisto affermando “Ehi, qui si parla di te!”.
“Il colmo per un cacciatore”, attesto divertita, guardandolo di sottecchi, “è avere la cravatta a pallini. Aspetta...”, asserisco con la fronte aggrottata, “io non l’ho capita.”.
Guardo in tralice la frase stampata sul libro per cogliere una sfumatura che mi è sfuggita, finché la mia attenzione è distolta dal suono del rauco sghignazzo alla mia sinistra. Allora alzo uno sguardo truce verso Daryl e, imputando i piedi per terra e cadenzando il mio parlato in una voce stridula e infantile, dichiaro “Cosa ridi? Dai, spiegamela.”.
In quell’istante Daryl scoppia in una fragorosa risata per la mia innocenza, mentre io, saltellando di fronte a lui, cerco di mantenere sul volto un’espressione tenera sbattendo le ciglia. Tuttavia, come risposta, sottrae dalle mie mani il manuale delle barzellette e lo scaglia lontano da noi con un lancio che supera le fronde degli alberi.
Alla vista di quel gesto rimango inebetita, con la bocca spalancata.
“Che esagerato!”, sentenzio aprendo le braccia attorno al mio busto, mentre, con fare innocente, inclino la testa sotto il suo mento e specifico “Potevi semplicemente dire che non ti facevano ridere.”.
Con un falso sbuffo, Daryl, avvinghia le mie spalle con le sue forti mani e, non proprio delicatamente, gira il mio corpo in modo da incitarmi a continuare a camminare.
Procediamo tenendo un passo sostenuto, ma il silenzio tra noi non dura nemmeno il tempo di un battito di ciglia, perché Daryl, con premura, mi domanda “Cosa ti manca di più della tua vita?”.
Sgrano gli occhi stupita nel sentire proferire un quesito di questa portata da lui. E’ nondimeno vero che non conosciamo nulla uno dell’altra e, forse, è questo il suo modo, seppur impacciato, di farmi percepire il suo interessamento.
“In realtà sento nostalgia di tante cose...”, dichiaro a denti stretti e sollevo il capo alla mia sinistra per scorgere il suo sguardo. In verità lui non sembra accorgersi del mio movimento, perché noto che, serio, tenta di non perdere di vista un punto indefinito di fronte alla sua figura. Quindi, sposto a mia volta gli occhi dinnanzi a me e, sorridendo lievemente, inizio a raccontare delle lunghe giornate primaverili della mia infanzia trascorse a giocare sotto l’ombra della veranda di casa assieme a Maggie e a Shawn, delle buie notti in cui, di soppiatto, mi sono calata dall’albero erto di fronte alla finestra della mia stanza per poter vedere Jimmy e delle lezioni serali di chitarra del papà.
Dopo aver parlato per quella che penso essere una buona mezz’ora, però, arrossisco e, impacciata, esprimo, quasi in un sussurro, “Perdonami se parlo a vanvera. Eppure”, sospiro gravemente, “queste non sono che alcune cose a cui penso costantemente della mia vita passata.”.
Con le dita sistemo maldestramente un angolo della canottiera, giusto per dare l’impressione di essermi momentaneamente distratta e, così, dargli la possibilità di spiegarsi a sua volta. Daryl, però, non accenna a parlare, motivo per cui decido di domandargli dolcemente “A te, invece, cosa manca?”.
“Sinceramente nulla.”, risponde secco, ma senza il suo solito tono iroso nella voce. Chiaramente scocciato da un ricordo, che vedo oscurare i suoi lineamenti, con la mano sinistra si gratta la cute, per poi, con un grugnito, rimarcare con fervore “La mia vita faceva schifo.”, e concludere mesto, “Mi dispiace soltanto che ora anche la vita di persone come te, che una volta erano felici, faccia tanto schifo.”.
“Sì...”, mi mordo il labbro per la mia sbadataggine, “so… cioè, ho sentito parlare di tuo padre e di tuo fratello Merle, che...”, ma non riesco a dare un senso alle mi parole balbettate senza un nesso logico, che Daryl mi interrompe, precisando secco “Che mio padre era un ubriacone e io e Merle trascorrevamo le nostre giornate fuori casa a rubare o a bere? Sì, Beth, hai sentito bene.”.
Imbarazzata, incasso il collo tra le spalle. In quel frangente, nella mia testa un’accozzaglia di frasi si accavallano indisciplinate fra loro, ma, inevitabilmente, con cautela sbircio incuriosita il volto di Daryl. A conferma delle mie supposizioni, sul suo viso è ricomparsa la sua solita espressione, imperturbabile e apatica. Ciò nonostante, richiamando le parole con cui era solita consolarmi Maggie, proferisco “Beh, se in trent’anni non hai mai avuto nulla per cui essere felice, forse, ora è tuo dovere fare in modo che qualcosa di bello accada.”.
La mia frase, nello stesso istante in cui termino di esporla, giunge alle mie orecchie come un’incitazione, che assume tutt’al più i connotati di un’istigazione provocatoria. I suoi occhi, infatti, ora fissano intensamente i miei.
Io, diversamente, desiderosa di cancellare il mio rimprovero morale, mentre tento di fare un nodo con un filo pendente dalla canottiera, confesso, con uno strano tremolio nella voce che smaschera il mio intento, “Io penso che bisogna sempre avere fede in qualcosa per poter trovare la forza per sperare che alcunché di straordinario possa accadere.”.
Dimenticato ogni timore, con il palmo della mano destra, sfioro con apparente noncuranza la tasca destra anteriore dei miei logori jeans, dove è riposto il fazzoletto di mio padre. Forse, penso, questo è il momento ideale per raccontargli del surreale sogno della scorsa notte. Invero, riponendo il mio sguardo sul suo viso, adesso sereno, abbandono il proposito appena abbozzato, e, sorridendogli, gli chiedo “Tu in cosa credi?”.
“A nulla, se non in me stesso.”, risponde pacato e serio.
Abbasso le spalle e, scuotendo lievemente il capo, ironizzo “E’ sempre un punto da cui partire.”.
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