martedì 26 maggio 2020

"Hold my hand". Capitolo 1.






Capitolo 1 – Scappare


Mia madre mi ha cresciuta con gli stessi insegnamenti con cui lei a sua volta è stata educata dalla propria.
Non ho mai reputato sbagliato il mondo presentatomi da mia madre, era semplicemente giusto. Accogliere mio padre sulla soglia di casa, cucinare delle buone pietanze, lavare le sue mutande e stirare le sue camicie era un dovere quanto pregare ogni sera prima di coricarmi a letto o essere una figlia educata e rispettosa. Tuttavia, nulla di ciò che lei e mio padre mi hanno indicato per modellarmi nella donna che speravano diventassi mi ha preparata ad affrontare la crisi che, poco più di un anno fa, ha scombussolato la Terra.
La mia mente ha in parte rimosso quanto è accaduto durante le prime settimane da quando nell’aria hanno incominciato a echeggiare i primi suoni rauchi e strascicati.
Di quel fosco periodo serbo solo dei vaghi ricordi in cui rammento mio padre seduto su una delle poltrone della sala, quella con la fodera fiorata dove mia madre era solita riposarsi completando le parole crociate, con lo sguardo offuscato e le spalle protese in avanti come se stesse portando su di esse un peso troppo gravoso. Non so quantificare con certezza per quanto tempo egli rimase in quello stato apatico, forse un paio di giorni o addirittura qualche settimana. Ciò nonostante, ormai mio padre, assieme all’intero mondo intorno a noi, si era trasformato in qualcosa di spaventoso.
Le ore non scandivano più le nostre giornate, o meglio noi non ci facevamo caso, poiché io, Maggie e Shawn restavamo accanto a nostro padre, accostati ai braccioli della poltrona, ad osservare sua moglie, ovvero mia madre e la matrigna di Maggie e Shawn, sbattere le mani nodose e putride contro la finestra, mentre con uno sguardo iniettato di sangue ci guardava attraverso il vetro, richiudeva le mascelle con un rumore secco e mugugnava dei versi incomprensibili… o almeno lo sono sempre stati fino ad ora. Adesso, invece, mi sembra per la prima volta di comprenderli.
<< Dobbiamo andare Beth, dobbiamo andare. >>.
Sbatto le palpebre e il viso afono e putrefatto di mia madre si trasforma in un volto roseo con due occhi azzurri che mi fissano insistentemente sotto un’arcata di folte sopracciglia corrugate. In quel frangente mi accorgo di non aver mai notato prima d’ora il colore delle iridi di Daryl.
<< Forza, dai. >> rimarca ferocemente prima di voltarmi le spalle e di incominciare a correre diretto verso un punto della boscaglia circostante la prigione, il luogo che avevo imparato ad accettare come una nuova casa.
Cerco di tenere il ritmo delle lunghe falcate di Daryl senza lamentarmi, mentre osservo la mezza ala scolorita dipinta sulla parte anteriore del suo smanicato di pelle nero. Daryl è angosciato, si intravede dalla schiena tesa e dalle vene che sporgono sulle sue braccia a causa della stretta salda delle sue mani che impugnano la balestra, leggermente protesa in avanti, pronto a sollevarla al minimo rumore sospetto.
Proseguo ponendo un piede davanti all’altro e cerco di focalizzare la mia attenzione sulla figura che mi precede, ma la mia mente è persa in un limbo tra il passato e il presente.
La sua andatura scattante mi ricorda quella di Shawn; anche lui era agile, ma mai quanto Daryl. Daryl si muove come un predatore, schiva i rami e balza sopra le radici con naturalezza. Io, invece, goffa e inesperta, inciampo nei miei stessi passi, motivo per cui spesso Daryl è costretto a volgere lo sguardo dietro di sé per scongiurare il timore di avermi lasciata indietro.
Dopo un tempo difficile da definire se non per il mero fatto che il sole è ormai quasi del tutto scomparso dal cielo, con la canottiera completamente bagnata contro il mio petto e le gambe tremanti, incomincio a diminuire la velocità fino ad ora sostenuta, finché, vinta da una fitta al fianco, mi fermo accarezzando con la mano sinistra il punto dolente, mentre con l’altra mi appoggio al tronco rugoso di un albero.
<< Daryl… >> il suo nome nome esce come un sibilo dalle mie labbra << ti prego, dammi un minuto.>>.
Egli, sentita la mia richiesta, subito ferma la sua corsa e si incammina verso di me. Il suo volto non si addolcisce, la tensione gli crea ancora dei profondi solchi sulla fronte, e, facendo richiamo alla sua più intima pazienza, mi domanda << Ce la fai a resistere per un’altra ora? Non siamo ancora al sicuro da loro.>>.
Sono stremata, non penso di poter reggere nemmeno altri dieci minuti della sua marcia, ma, allo stesso istante, so che devo reagire per non metterlo in pericolo a causa della mia inadeguatezza.
Annuisco a fatica e, per un paio di minuti, con la bocca secca e impastata cerco sollievo nell’aria, con la consapevolezza che in seguito non potremo fermarci di nuovo.
Proseguiamo per un’altra mezz’ora, ma a stento, a causa delle tenebre che rendono più difficoltoso il percorso. L’improvviso sopraggiungere della notte, inoltre, mi annichilisce, perché con il suo arrivo smarrisco le mie già precarie abilità. Invero, i miei occhi non abituati a cercare nel buio e il terrore mi fanno capitolare più volte al suolo. Alla seconda caduta avverto una fitta al ginocchio e, toccandolo, sento il palmo bagnato di sangue. A peggiorare i miei sensi di colpa per il gemito di dolore, che involontariamente è fuoriuscito dalla mia gola, odo sopra la mia testa il grugnito di disapprovazione del mio compagno di disavventure. Sorprendentemente, però, facendomi sussultare dal terrore, si accosta al mio corpo e, con le sue mani callose, palpa la mia ferita. Nell’oscurità non riesco a mettere a fuoco il contorno del suo corpo, ma percepisco il suo alito caldo vicino alla mia gamba.
<< Non è nulla di grave, è solo un taglio un po' profondo. >> afferma con la voce rauca di chi per ore non ha proferito parola prima di strapparsi un lembo della maglietta, o almeno credo, per fasciarmi il taglio. Socchiudo le labbra per ringraziarlo, ma lo scricchiolo delle foglie sotto i suoi anfibi mi fa capire che ha ripreso il percorso. Questa volta, però, camminando lentamente.
Durante la frenetica fuga non ci siamo parlati, cosicché tra noi gli unici suoni udibili, oltre a quelli creati dalla natura, sono stati quelli dei nostri respiri ansanti.
Prima d’ora io e Daryl non ci siamo mai realmente confrontati su alcunché, non ce ne è mai stata occasione. D’altra parte lui era sempre in prima linea assieme a Rick, pronto a partecipare a qualsiasi escursione per il bene della nostra comunità.
Persa nelle mie elucubrazioni non mi accorgo che Daryl si è finalmente arrestato finché non mi scontro contro il suo torace.
<< Ehi, stai bene? >> mi chiede seccamente.
Io , per l’ennesima volta, non rispondo. Non riesco, e non voglio, ancora rielaborare quanto è successo solo questa mattina. Dall’accaduto ho solo pensato a correre e a seguire Daryl, senza tornare con la mente a mio padre e alla katana di Michonne, prima che…
Daryl, allora, come ricordatosi del fatto, emette un suono rauco, mentre, nello stesso istante, lo sento muovere nel gesto con cui presumo si stia caricando sulle spalle la balestra, per poi dichiarare, forse anche indicando un punto indefinito dietro di sé, << Laggiù c’è un ruscello, l’avevo scoperto un giorno quando ero uscito a cacciare con Michonne. >> . Non sentendomi proferire verbo, né di assenso né tantomeno di dissenso, prosegue senza tentennamenti aggiungendo << Per questa notte non accenderemo il fuoco, non sappiamo quanto e se li abbiamo effettivamente distanziati, ma avremo da bere e se siamo fortunati anche qualcosa da mangiare. >>.
Per un breve istante nell’ombra mi sembra di scorgere un guizzo provenire dal suo sguardo e, in quel momento, paura e rabbia sembrano bruciare anche nella sua anima. Ora inizio a metabolizzare che, forse per sempre o forse no, siamo solo noi due a difenderci l’un l’altro, non tanto dagli zombie, ma dalla crudeltà dell’uomo.


Nessun commento:

Posta un commento